Made in Chama not in China
Era una strada del New Mexico. Si andava un po’ a zonzo, disubbidendo al navigatore e mi guardavo intorno. Una scritta “Made in Chama not in China”. Una specie di robot militaresco, accoglieva all entrata.
Ci fermiamo e qualcuno urla di entrare nel capannone e di fare come fossi a casa. Dentro una marea di oggetti costruiti con avanzi di ferro: mestoli, forchettoni, porta-candele dalle fogge stralunate, piatti battuti con borchie di ottone… Mi piaceva tutto e allo stesso tempo mi sembrava che il senso fosse lasciare tutto lì, come in un museo di sperimentazione.
Entra lui. Dinoccolato, due occhi celesti profondissimi, si siede mezzo storto sulla sedia. La solita domanda, da dove arrivo, il solito sorriso alla parola Italia.
Non chiede altro come spesso capita in America: c’è più desiderio di raccontare che di ascoltare. A me piace ascoltare.
Mi racconta che è lì da tutta la vita, che ha visto cambiare il mondo e ora non lo capisce più. Che la guerra in Ucraina è una follia ed elenca una lunga serie di esempi sull’inutilità della guerra, partendo dall’antica Roma e citando anche le guerre puniche. Sono esterrefatta che la conversazione abbia preso un colore così caldo e originale, lì in un piccolo camper del New Mexico. Poi rallenta, dice che è stanco, che questi suoi lavori manuali gli hanno permesso di allevare 4 figli che ora sono lontani e sua moglie che è morta qualche anno fa. Il tono è sempre più commosso, aggiunge che tra poco volerà via anche lui e che il giro così si concluderà. Non riesco a quel punto a comprare un cucchiaio per 20 dollari, anche se quello avrei dovuto fare.
Gli faccio ciao con la mano e lui appoggia la sua sul cuore.